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Io, il vecchio e il mare

L'intervista impossibile.

Key West, Florida, luglio 1934

«Ti va un Daiquiri?»

La domanda mi mette a disagio. Non voglio offendere il mio anfitrione, ma confessargli che non bevo liquori mi esporrebbe al suo sarcasmo. Come minimo, esploderebbe in un “Gosh!” rotondo e squillante come il suono di un gong. Perciò esito.

«Preferisci un Gibson o un Bloody Mary? Ma forse, tu sei un tipo da Death the Afternoon…»

Ok, vada per quest’ultimo.

Una coppa di champagne con una goccia di assenzio è il minore dei mali.

Ernest è uno splendido padrone di casa e fa di tutto per mettermi a suo agio dopo una giornata trascorsa insieme, così memorabile che la racconterò ai miei nipoti. “Sapete, bambini, il vostro nonno è stato ospite di Hemingway nella sua bella casa di Key West nascosta in una fitta vegetazione tropicale e ha condiviso con lui e il suo amico Joe Russell, il proprietario del famoso Sloppy Joe’s Bar, una battuta di pesca al marlin nelle correnti del Golfo.”

Già, chi l’avrebbe detto che un giorno sarei salito sul Pilar, la barca d’altura cui Hemingway ha affibbiato il nomignolo della sua seconda moglie Pauline Pfeiffer.

È stata un’esperienza forte, per quanto non abbia provato lo stesso sentimento di onnipotenza che “Papa” (è il più comune dei soprannomi di H.) ha manifestato il momento in cui un grosso esemplare del re dei Caraibi simile al pesce spada è stato preso all’amo e issato a bordo.

Ora sono nel suo soggiorno, seduto su una poltrona Art Déco in velluto, davanti a un pezzo d'uomo che mi studia con i suoi occhi vivaci e all’improvviso decide di ribaltare i ruoli.

Volevo intervistarlo, conoscerlo meglio e sapere a quale nuovo romanzo stesse lavorando dopo avere pubblicato con successo Fiesta e Addio alle armi. Ma Hemmy (è così che desidera lo chiami) mi spiazza. La sua curiosità lo spinge a sapere che tipo di scrittore io sia. So che ama ascoltare e che un giorno dirà: “Ho imparato la maggior parte delle cose che so ascoltando”.

Accetto di rispondere alle sue domande con un velo di imbarazzo.

È pur vero che lui, a trentacinque anni, non è ancora un grande della Letteratura ma io so che lo diventerà. Di più, diventerà un mito.

E spogliarsi davanti a un mito è come tuffarsi in un cenote messicano.

Hemmy riempie di nuovo il suo bicchiere prima di sottopormi a un interrogatorio che si rivela subito serrato ma cordiale.

«Voglio che tu mi dica come scrivi. Quali sono le tue abitudini, le tue regole?»

Esito, per la seconda volta. Allora lui mi viene in soccorso, come quando guidava l’ambulanza sul fronte italiano durante la Grande Guerra.

«Io sto in piedi quando scrivo, con la Underwood e il leggio davanti a me, all’altezza del petto. Scrivo ogni mattino dopo le prime luci dell’alba e smetto solo quando sento che la linfa vitale non scorre più. E così anche per te?»

Sorrido e rompo il ghiaccio. «No, io sto seduto alla mia scrivania, nel mio studiolo, e uso il…»

Mi blocco. Stavo per dire “notebook” ma mi rendo conto che nel 1934 non esistevano i personal computer. Riprendo il filo interrotto facendo finta di niente.

«Non ho abitudini precise. Scrivo a tutte le ore, fuorché di notte.»

«E ti sei mai chiesto perché scrivi?»

La seconda domanda deflagra come una granata austriaca.

«Scrivo perché non potrei farne a meno. Credo sia una vocazione, un bagaglio che mi porto dietro fin da quando sono nato. Forse da prima.»

Lo sguardo di Hemmy si increspa. Pare voglia soppesarmi.

«Che genere di libri scrivi?» «Per lo più romanzi.» «Che tipo di romanzi?»

«Mi piace raccontare storie non comuni. Sono affascinato dal passato e amo calarmi nei panni di chi ha vissuto in epoche lontane e trasmettere al lettore visioni ed emozioni. Ma non voglio essere considerato uno che scrive romanzi storici. Sono eclettico, aperto a ogni contenuto e genere di racconto. Di più, sono un apprendista.»

Hemmy sorride compiaciuto. «Siamo tutti apprendisti in un mestiere dove non si diventa mai maestri» sentenzia. Svuota il bicchiere e poi, senza preavviso, mi assesta un colpo allo stomaco. «Esistono solo due tipi di libri, quelli sinceri e quelli bugiardi. I tuoi come sono?»

Dovrei riflettere prima di rispondere ma l’istinto di conservazione mi induce a bruciare i tempi.

«Non sta a me dirlo… ma credo che i miei romanzi siano veri.»

«Allora sono buoni.»

«Buoni?»

«My friend, tutti i buoni libri hanno in comune il fatto che sono più veri di quanto avrebbe potuto essere vera la realtà. Credimi, non si deve fare altro che scrivere frasi sincere per ottenere risultati apprezzabili, anzi buoni..»

Interessante, penso.

Hemmy osserva un gatto dal mantello tigrato che è salito sul bracciolo della sua poltrona e lo tampina facendo le fusa. Lui lo accarezza e stornando lo sguardo verso di me mi rivolge un quesito enigmatico che fa sembrare innocua la granata di poc’anzi.

«Tu possiedi un rilevatore di stronzate?»

«Cosa?»

«È il dono più grande che uno scrittore deve avere. O ce l’hai o non ce l’hai.»

Come faccio a sapere se ho questa sorta di radar?

In effetti, io non navigo a vista ma da qui a dire che so evitare le secche narrative e le tempeste stilistiche ne corre. «Seguo l’istinto.»

«Ma certo, il grande istinto degli italiani!» Il suo commento è fatto con cognizione di causa.

A quel punto,  Hemmy sale in cattedra e dopo avermi spiegato che il suo stile è basato sulla semplicità, sicché la sua prosa è caratterizzata da frasi brevi e concise, e che preferisce i dialoghi alle descrizioni, vuole sapere di che pasta è fatta la mia scrittura.

Gli spiego che sono innamorato del lessico, ragion per cui non mi accontento della prima parola che mi viene in mente, e che la mia sintassi non è complicata ma nemmeno minimale. Amo la bella frase, la costruzione elegante, la narrazione coinvolgente.Provo a trasmettere emozioni, non spiegazioni. Cerco di scrivere come parlo. A volte ci riesco, altre meno.

Lui mi fissa annuendo e poi, nascondendomi le sue opinioni su ciò che gli ho detto, mi espone il principio dell’iceberg (che avrebbe reso pubblico solo nel 1945, in una intervista a G. Plimpton).

«Se posso darti un consiglio, fai come me. Scrivi nascondendo. Lascia che i sette ottavi di ciò che costituisce l’iceberg restino sommersi. Rendi visibile solo la punta emersa. Quello che non si vede ma si immagina è più importante di ciò che appare.»

«Spiegati meglio Hemmy. Cosa dovrei fare?»

«Elimina il superfluo. Taglia più che puoi. Lascia al lettore la possibilità di fantasticare su ciò che gli hai tenuto nascosto. Permettigli di fare sua la tua esperienza.»

Mi chiedo se questa tecnica, in cui Hemingway primeggiava, è riscontrabile nei miei romanzi.

E mi interrogoo se saprò fare tesoro di tali insegnamenti nei libri che già vivono dentro di me ma non hanno ancora visto la luce.

La mia riflessione viene interrotta bruscamente da un coup de théâtre.

Entra in scena una donnina appariscente che sembra uscita dalle pagine di Vogue Paris anni Trenta. È piccola, coi capelli corti, le labbra vistosamente dipinte, lo sguardo sbarazzino e malizioso. Riconosco la ricca e viziata Pauline Pfeiffer, che mi trafigge con una occhiata da faina e apostrofa Hemmy con ragionata dolcezza.

«Papa, mi spiace interromperti ma i tuoi figli ti reclamano.»

L’invito infastidisce Hemmy, che vorrebbe rivolgermi altre domande anziché andare in giardino, dove giocano Patrick, di sei anni, e Gregory, di tre.

Aspetta che Pauline esca dal salotto e lisciandosi i baffetti fionda la sua ultima richiesta.

«Qual è il libro che vorresti avere con te sull’isola dove sei approdato dopo un naufragio?»

È una domanda da un milione di dollari.

Porterei con me una cassa piena di libri, ma so che Hemingway, il cui amore per i libri era viscerale, esige la verità e scelte precise.

«La ricerca del tempo perduto.»

L'uomo dalla vita inimitabile  sbalordisce e si fa scappare un «Lit!» di consenso.

Mi è noto che questo capolavoro rientra nell’elenco dei 29 classici da lui preferiti, il che gli consente di congedarmi con una frase di Proust che ha impresso nella memoria:

«Il libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non deve inventarlo, poiché esiste già in ciascuno di noi, ma tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore.»

Ricevuto, Hemmy, forte e chiaro. Ti prometto che proverò a tradurre il mio libro essenziale.

Giuseppe Bresciani ©

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