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Franz Kafka, il profeta della Nomocrazia

Rileggere Kafka significa riscoprirne l’incredibile modernità.

Intendiamoci, ci troviamo di fronte a un gigante della Letteratura che non è alla portata di tutti. Lo si legge da adolescenti, comunque quando si è giovani, e lo si fa animati di coraggio e con una certa fatica. Poi lo si accantona. I più lo dimenticano.

Riprendere in mano i suoi libri – non solo i romanzi e i racconti ma anche le lettere e i diari – non è impresa da poco, tuttavia riserva agnizioni sorprendenti che giustificano ampiamente lo sforzo.

Di questo timido, tormentato e oscuro ebreo che in vita fu sconosciuto e oggi viene considerato il “padre spirituale” della generazione post-bellica, si sono occupati grandi critici letterari e autori importanti.

Il saggio di Walter Benjamin del 1934 è basilare per comprendere il genio di Praga e il suo mondo. Non meno utili sono i contributi di Theodore Adorno, Georges Bataille ed Elias Canetti. Il saggio di Camus del 1948 contenuto ne Il mito di Sisisfo ha il merito di avere coniato l’etichetta “assurdo” con cui si è soliti definire l’universo kafkiano. Trovo imprescindibili anche il Kafka di Pietro Citati e K di Roberto Calasso. Ma come giustamente ha rimarcato il grande critico Italo Alighiero Chiusano, “c’è sempre da eccepire su qualunque cosa, anche egregia, quando si scriva su Kafka, tanto quest’autore è poliedrico, ossimorico, chimerico, facilmente trascrivibile in mitologie private che vengono contestate da chiunque ne abbia una diversa.”

A parlare di Franz Kafka c’è dunque il rischio di finire ghigliottinati, sicché converrebbe astenersi da ogni riflessione o commento personale. Eppure, avendo portato a termine la mia rivisitazione, sento il bisogno di condividere una sensazione forte. Kafka era tante cose, ma su tutte un profeta. Penso sia il lungimirante divinatore della nomocrazia. Ecco perché va riletto; è attualissimo. La sua opera ci introduce nelle stanze dei poteri forti con i quali siamo in perenne conflitto, ci illustra il labirinto paludoso dove ci siamo persi (o ci hanno relegati) e nel quale può districarsi solo un’anguilla delle Valli di Comacchio


Kafka ha visto il futuro. La burocrazia austroungarica che ha stigmatizzato è l’archetipo della società nomocratica in cui viviamo. Non cercate sul vocabolario la parola nomocrazia, non la troverete. È un neologismo composto da due termini greci antichi: νόμος, cioè “legge” e κρατία, vale a dire “potere”. La nomocrazia è l’esercizio assoluto del potere, la sua egemonia, il suo predominio nella società contemporanea attraverso varie forme e realtà: lo Stato e le sue istituzioni, la pubblica amministrazione, la burocrazia, il sistema finanziario e bancario in primis.

Kafka, come l’Orwell di 1984, ha previsto ne Il Castello e ne Il Processo, ma anche in alcuni racconti, il regime assurdo e angosciante di controllo e potere sull’umanità da parte di un sistema articolato che schiaccia l’individuo, lo umilia, lo priva della propria dignità. Gli scenari descritti nelle opere di Kafka anticipano quelli nei quali oggi recita il cittadino che si relaziona con gli apparati nomocratici. Come Josef K. e l’agrimensore K., chi mi legge sa bene che la nostra vita non ci appartiene più, non totalmente da quando il Potere (non a caso con la P maiuscola) ci ha privato gradualmente di alcune libertà irrinunciabili, ci manipola e spia, ci sottopone alle forche caudine di una burocrazia estenuante, ci castra e obbliga a difenderci da sospetti e accuse (siamo tutti colpevoli finché non dimostriamo il contrario e l’onere della prova è a nostro carico).

Presumo comprendiate di cosa parlo. Alzi la mano chi non è mai capitato nel villaggio sovrastato da un castello dove si esercita il potere oscuro o ha dovuto misurarsi con un processo incomprensibile. Aldilà delle metafore, è evidente che il mondo in cui viviamo è kafkiano; se l’Agenzia delle Entrate, i servizi sociali e la Magistratura non fossero reali, si potrebbe pensare che le ha inventate Kafka. E non diversamente dai poveri protagonisti dei suoi libri, noi siamo creature kafkiane allibite e indifese di fronte alla protervia dei mostri nomocratici, a loro volta creature fiscali, grette e implacabili.


Il paradosso, come ci ha mostrato Kafka ne Il Processo, è che “spesso è più sicuro essere in catene che liberi”. Come dargli torto? Nella società contemporanea, l’individuo che a ragione o torto finisce nelle spirali della burocrazia o della giustizia, cessa di essere una persona. Diventa una vittima, un capro espiatorio, un numero che attende il giudizio senza potersi difendere adeguatamente, senza capire cosa gli stia accadendo. Una volta condannato, si mette il cuore in pace. Kafka ha descritto con maestria la psicologia dell’uomo moderno posto di fronte a una nomocrazia iniqua e crudele, cui non si può scampare. L’esecuzione di un soldato reo di non avere salutato il suo comandante (Nella colonia penale) o il suicidio di Georg Bendemann (La Condanna, racconto altrimenti noto come Il Verdetto) sono eventi paragonabili alla sorte di chi vede rovinata la propria vita da un errore giudiziario (ve lo ricordate Alberto Sordi nel film Detenuto in attea di giudizio?) o a quello di chi viene strozzato dal Fisco e depone le armi. E la Legge esercitata nei nostri tribunali non ci equipara forse alla vittima che senza come e perché è condannata allo strazio di una macchina infernale d’impeccabile precisione impiegata per compiere efferate operazioni di giustizia?

Kafka ci ha mostrato uno spaccato di come la Nomocrazia possa annichilire un essere umano e condannarlo alla disperazione. Lo ha fatto cento anni fa, senza immaginare che raccontava il furo, nella fattispecie i nostri tempi.


Aveva dunque ragione Primo Levi quando scrisse che “Kafka comprende il mondo – il suo e anche il nostro d’oggi – con una chiaroveggenza che stupisce e che ferisce come una luce troppo intensa”. Vale la pena rileggerlo, credetemi. Ma farlo comporta qualche effetto collaterale. La sua visione triste e pessimistica della vita, ci induce a riflettere sulla nostra condizione di larve umane, di servi impotenti assuefatti all’arbitrio della Legge e all’arroganza della Politica.


Kafka non è per tutti, lo ribadisco. Lo sconsiglio a chi è depresso, a chi ha paura delle ombre, a chi si è arreso o è consumato dalla rabbia. Nondimeno, occorre conoscerlo. Perché “abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di qualcuno che amiamo. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”, come suggerisce la lettera che egli scrisse a Oskar Pollak nel 1904.


Giuseppe Bresciani ©



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